ER ogni tipo di festival è forse co-
minciato il declino. La rapidità del
e l'abbondanza delle notizie, riducono
sensibilmente la novità dei loro pro
grammi; e manifestazioni nate sotto il
segno della internazionalità diventano
a poco a poco rassegne locali. Ciò è
vero soprattutto per quanto riguarda il
teatro. Anche in passato, il festival in-
ternazionale organizzato dalla Bienna-
le ebbe un suo carattere particolare.
Ossia, pur facendo posto a commedie
nuove e a nuovi allestimenti italiani,
tenne sempre d'occhio l'importazione
di spettacoli stranieri già collaudati nei
loro paesi di origine. Le compagnie
francesi, tedesche e spagnole via via in-
vitate, meglio che per essere sottoposte
a un nuovo giudizio, trovavano acco-
glienza nei programmi del festival
quasi in segno di omaggio
Questo carattere tende ad accentuar
si, nessuna nuova commedia italiana
figura nel calendario di quest'anno. E
nasce il dubbio che ci si voglia incam-
minare per gradi sulla strada delle
rappresentazioni culturali o rievocati-
ve, di cui nessuno intende disconosce-
re l'importanza, ma che tolgono al fe-
stival uno dei suoi aspetti più pungen-
ti: l'attrattiva dell'imprevisto.
Oltre a ciò, questa volta la Bien-
nale si è allontanata dal criterio di im-
primere ai suoi spettacoli il marchio
dell'esclusiva. Si è accolto nel pro
gramma il « Teatro dei gobbi di Ro-
ma con la rivista da camera Carnet de
notes, già largamente rappresentata
durante l'anno. E si è consentito che
il Cid di Corneille trasmigrasse nella
stessa settimana a Vicenza e a Milano.
C'erano dunque molte ragioni per-
ché la serata inaugurale della Fenice
apparisse meno splendente degli anni
passati. Certi gruppi di spettatori, anzi
che venire a Venezia, forse aspettavano
Corneille in casa loro. Eppure nessun
teatro era adatto a far risaltare con al-
trettanta evidenza l'indirizzo e il con-
cetto interpretativo del «Théâtre Na-
tional Populaire ». Contro il fasto e lo
sfolgorio della sala stavano la cupa uni
formità della scena ideata da Léon Gi-
schia e la povertà degli arredi. E su
quello sfondo anche l'abbondanza dei
costumi storici acquistava una asciut-
tezza che pareva semplificarli
La polemica iniziata circa un anno
fa da Jean Vilar con la fondazione del
«Théatre Populaire» sovvenzionato dal
lo Stato, e l'apertura del Palais de
Chaillot a duemila persone che ogni
giorno possono ascoltare Molière, Cor-
neille, De Musset, Brecht o Von Kleist
pagando in media cinquecento franchi,
proprio a Venezia poteva manifestarsi
più accesa che altrove.
Tale nella sostanza, essa è sfuggita
alla maggioranza degli spettatori. La
loro attesa, uomini e donne, era soprat-
tutto per Gérard Philipe: l'attor gio-
vane oggi più favorito, cui giova an-
che la contesa tra cinema e teatro. Il
successo ch'egli ha ottenuto è stato
entusiasmante, e a giustificarlo non
basta la bravura. Philipe è un inter-
prete eccellente, ma è anche un avve-
duto amministratore del proprio fasci-
no: un dono che è di pochi.
Tuttavia l'esito di questa edizione
del Cid non può essere ascritto soltan-
to a lui. Vi concorrono altri dieci at-
tori, a cominciare da Françoise Spira
che si cimenta in una parte che par-
ve ingrata alla stessa Rachel. Vi con-
corre, e in somma misura, Jean Vilar
che ai più avveduti si rivela come l'a-
nima dello spettacolo. Quel suo Re
sapientemente malinonico, la cui vi-
vezza è tutta raccolta nel movimento
delle mani a contrasto di due gambe
magrissime che sembrano assottiglia-
te dal peso della sovranità, non è di-
menticabile. Dalla parola di Vilar na-
sce l'accento che i suoi interpreti con-
dividono e per il quale la tragicomme-
dia di Corneille assume andamento e
maestà di concerto.
Al «
Théâtre Populaire » è succeduto
il «Kammerspiele» di Monaco, il quale
ha rappresentato il Woyzeck'di Georg
Büchner e il matrimonio del signor
Mississippi di Friedrich Dürrenmatt.
Alla scelta del Woyzeck non è estra-
neo un allacciamento lontano all'im-
pressionismo pittorico cui è stata fatta
larga parte nella mostra figurativa.
Büchner mori ventiquattrenne nel 1837.
e che fosse stato un precursore dell'im-
pressionismo nell'epoca preromantica fu
scoperto un secolo dopo. Egli fu anche
no liberale avanti lettera, ed oggi si
potrebbe addirittura pensare che aves-
se antiveduto la tecnica cinematografi-
ca. Certo la frammentarietà del Woy-
zeck, che è opera postuma, il suo de-
centramento e l'assenza di sviluppi tra
dizionali, sono aderenti al gusto d'oggi.
E il «Kammerspiele >> di Monaco, di-
retto da Hans Schweikart, ne ha af-
frontate le difficoltà con decisione am-
mirevole.
Hans Christian Blech, Marie Luise
Willi, Friedrich Domin, Adolf Gondrell
e gli altri attori del Kammerspiele >>
sono i continuatori di una tradizione
che risale al 1911 e che non fu interrotta
nemmeno da due guerre. Quanto gran-
de sia il loro impegno, e quale la loro
capacità, si è visto anche nella comme-
dia di Dürrenmatt, un giovane scritto-
re svizzero tedesco al quale hanno fatto
credito anche i molti spettatori che
ignoravano la lingua tedesca.
le pasowi deli Eli.eavaliausia
Un bell as
LA CARRIERA VELOCE DI GERARD PHILIPE
nous fa tomare di morta Coneille. Aneke de fyn dioffi, grazie alii, poteno
queste approssimativamente le parole del filosofo france-
se, in cui sembra che dentro di te, senza che la tua
volontà vi concorra, si svegli come il ricordo di un altro
te stesso, che si muove per suo conto per una durata
brevissima) e che ti dà la sensazione profonda e misterio-
sa d'avere vissuto un'altra vita. In quei momenti si è
come doppi. Ci sono contemporaneamente te che guardi
e un altro te che agisce libero e nuovo come una crea-
tura nata in quel momento alla vita ». Quando recita
Philipe si sente appunto in uno di questi momenti.
Gérard Philipe è nato a Cannes trentun anni fa. Suo
padre era proprietario di un albergo. Sotto l'occupazione
tedesca e il governo di Vichy, Philipe studiava filosofia.
La vita a Cannes era triste. Philipe andava a passeggio
sulla costa e guardava mare. Un giorno, nella primave-
ra del '42, vide accanto a sé un uomo di una trentina
d'anni, alto, col naso lungo e la bocca sottile, gli occhi
tondi e curiosi. Era l'attore Claude Dauphin. Dauphin e
Philipe cominciarono a parlare. A un certo punto Dau-
phin gli propose di iscriversi al corso di recitazione tea-
trale che Jean Wall aveva iniziato in città. Così, l'an-
no successivo, nel '43, Philipe scendeva dal cielo di
un teatro di Parigi, nelle vesti dell'angelo di Sodome et
Gomorrhe, il dramma di Jean Giraudoux.
Nella sua seconda recita a
Parigi, al teatro Mathurins,
Philipe fu ancora un angelo e poi, a liberazione avve-
nuta, fu Caligola, nel dramma di Albert Camus. Il Ca-
ligola di Camus non somiglia molto a quello vero; è un
personaggio romantico che ha lunghi colloqui con la
luna, e la sua ferocia è il frutto di una filosofia assurda.
«M
AI FINO ad oggi», ha detto una volta Gérard
Philipe, l'attore francese che ha riportato la set-
timana scorsa grande successo a Venezia e a Mi-
lano nel Cid, diretto da Jean Vilar, « le cose mi sono
andate secondo le previsioni; volevo fare il medico ed
eccomi attore; attore, mi sarebbero piaciute parti dal
vero, in giacchetta e calzoni, ed invece ho quasi sempre
interpretato personaggi di altri tempi, talvolta irreali,
in costume; mi piaceva la vita tranquilla, e ho sposato
una donna che fa l'esploratrice ».
Philipe ha il viso magro, serio, e sotto la folta capi-
gliatura castano scura i suoi occhi chiari riflettono come
un'ombra. Vive alla periferia di Parigi, a Neuilly, con
la moglie Nicole Fourcade, che ha otto anni più di lui,
e il figlio che essa ha avuto da un primo matrimonio. E
silenzioso e riservato. Se non è per lavoro, esce di rado.
La sera, preferisce studiare. Ma dentro questo uomo ne
vive un altro, pieno di vivacità, di impeto, talvolta per-
sino privo di controllo, che si manifesta soltanto in teatro
o davanti alla macchina
da presa. Ci sono due Philipe;
uno che passa ore al tavolino leggendo libri di filosofia
e di teatro, l'altro, che abbandonandosi al suo estro, va
oltre i piani del regista ricreando quasi la sceneggiatura
e meravigliando i compagni di lavoro.
«Dopo nove anni che lavoro», ha detto Philipe, « mi
sono convinto che non sarò mai un attore riflessivo, ma
che mi lascerò sempre trasportare da una specie di forza
irrazionale ». Quando studiava filosofia aveva letto, in
un saggio di Bergson, una frase che l'aveva particolar-
mente colpito: «Ci sono momenti nella vita », sono