Christian Boltanski
Nato a Parigi, Francia, nel 1944.
Vive e lavora a Malakoff, a sud-ovest di Parigi
Nel cielo del deserto di Atacama, sulla costa cilena del Pacifico, c’è una distesa di campanelle giapponesi che oscillano dall’alto di lunghi steli metallici. La disposizione di queste 850 campanelle, collocate a formare una costellazione della buona fortuna, rappresenta la posizione delle stelle nell’emisfero meridionale la notte della nascita di Christian Boltanski (6 settembre 1944). Il titolo dell’opera, Animitas, realizzata con l’aiuto della popolazione di una comunità indiana, è un riferimento agli altari dedicati ai morti e collocati lungo le strade in alcune zone del Cile. Per sentire il mormorio di questo grande, ma delicato strumento che suona al minimo alito di vento, i visitatori della videoinstallazione che documenta l’opera si ritrovano immersi nel cuore del paesaggio cileno grazie a una proiezione grande quasi quanto la sala. Attraverso Animitas, la delicata musica del caso, l’artista gioca ancora una volta con la memoria e il ricordo, la storia personale e l’invocazione cosmica. L’opera di Boltanski, contrassegnata dalla ricerca di universalità e poesia, esplora le differenze fra autobiografia e auto-fiction, memoria e oblio, vita e morte, individuale e collettivo. Come i monumenti dedicati alla memoria, i suoi lavori, romanzati e condivisi, portano alla luce i traumi del XX secolo attraverso installazioni globali nelle quali assumono un ruolo di grande importanza gli ingrandimenti fotografici, gli oggetti quotidiani e il suono.
I due film che ha prodotto nel 1969, con il fratello Jean Eli come protagonista, vengono presentati alla 56. Biennale di Venezia. Si tratta di L’Homme qui leche (L’uomo che lecca) e L’Homme qui tousse (L’uomo che tossisce). Anche se ormai hanno più di quarant’anni, questi film non hanno perduto la capacita di comunicare allo spettatore ansia e oppressione.
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