Non è un caso se si parla sempre di ricerca della qualità negli ambienti edificati e non solo nelle città. L’architettura del paesaggio ha il potenziale di un impatto significativo grazie alla scala delle sue operazioni e alla condizione di bene pubblico. Nel tentativo di migliorare la qualità della vita di una comunità, gli spazi tra gli edifici diventano più determinanti degli edifici stessi. La qualità dell’ambiente edificato andrebbe misurata sulla base di ciò che le persone riescono a farci senza spesa. L’architettura del paesaggio prevede operazioni che modellano gli spazi pubblici aperti con un potenziale di portata enorme. In questo senso è più democratica, può coprire un’area maggiore e costa molto meno dell’architettura. Se ben progettata, è più sostenibile perché si può realizzare con materiali locali (molto più dell’architettura).
Gli ultimi progetti di Teresa Moller vanno in questa direzione. Moller comincia con l’esaminare il sito. La lettura del luogo è intuitiva, non intellettuale, volta a catturare informazioni non ovvie a prima vista, ma che ne sono la vera essenza. La capacità di dare la giusta attenzione al sito (che significa non intraprendere nulla prima che questo possa “dire la sua”) l’ha guidata nel lavoro su un tratto roccioso di costa, aggiungendo solo qualche blocco di pietra a misura umana, senza ricorrere a strutture invasive; le ha permesso in un parco nel deserto di utilizzare specie che quasi non hanno bisogno di acqua, estendendo all’intera città le qualità dell’oasi, o in Cina di usare un albero quasi estinto quarant’anni prima.
A Venezia la strategia non è diversa. Dopo aver visitato il sito, si è resa conto che, oltre all’architettura da cartolina, esistono molti elementi che solitamente sono tralasciati, ma che fanno parte del paesaggio: recinti, balaustre e ponteggi che, anche se non pensati con quello scopo, definiscono l’esperienza ultima del sito. Ha proposto, così, la miglioria di questi elementi urbani trascurati con l’uso di un materiale anomalo. Nel deserto di Atacama, famoso per l’estrazione del rame, Teresa ha trovano una cava di travertino ignorata dai cileni. Il materiale è estratto in modo talmente rudimentale che si producono molti scarti; grossi pezzi di travertino si accumulano così lungo la recinzione della cava. Teresa ha colto l’opportunità di sfruttare il travertino abbandonato non solo per migliorare l’esperienza alla Biennale nelle zone all’aperto dell’Arsenale, ma anche per fare in modo che quegli scarti guadagnino valore e al rientro in Cile possano essere usati come materiale di qualità negli spazi pubblici che più lo meritano: le periferie abbandonate che necessitano di un materiale resistente e nobile per ripagare il debito che abbiamo con esse.
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