Da decenni ormai Paco Alonso sta cercando, in un modo piuttosto underground, di pervenire alla dimensione più trascendentale dell’architettura, nel tentativo di afferrare i più profondi misteri della condizione umana. La sua architettura è qualcosa che sta tra la poesia e la scienza, qualcosa che si traduce in una specie di monumentalità intima.
Una torre che nasce alla base in forma di quadrato e diventa infine ottagono sulla cima, dove si trova una piazza; un edificio cilindrico con un diametro di duecento metri, che ruota percorrendo un intero ciclo in un mese, in modo da distribuire uniformemente la visione panoramica e la luce del sole; la struttura delle torri, delle campane e persino della musica per poi avvolgere l’intera città in quella melodia: i progetti di Paco Alonso sono operazioni che sfidano qualsiasi riferimento o consenso attuale. Esplorano figure geometriche che prima non esistevano, ma che poi sembrano esserci da sempre. Una radicale ricerca/indagine con un’originalità arcaica che si accorda con i momenti culminanti della storia dell’architettura, momenti nei quali le civiltà sintetizzarono poesia e scienza in operazioni monumentali come una piramide o un tempio dorico.
Perché mai invitare qualcuno come lui a una Biennale che cerca di identificare strategie progettuali in grado di migliorare il nostro ambiente costruito? Il lavoro di Paco Alonso gioca con forze che le leggi del mercato hanno smesso di considerare molto tempo fa. Egli rappresenta una riserva morale per l’architettura, una sorta di connessione perduta, capace di ricordarci la densità che ci si dovrebbe aspettare dalla disciplina. Senza dubbio, è un valido contributo al concetto di qualità nell’ambiente costruito.
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