Marisa Laurito presenta due grandi istallazioni estrose ed allegre proprio come
l’autrice sa essere.
Opere, queste, che hanno il sapore della critica alle nuove tendenze del gusto, ma che rilevano anche il gioco divertito dell’ironia, della satira che per una volta non è rivolta alla politica, al mondo
patinato, o almeno non esclusivamente ad esso, ma ci coinvolge in prima persona,
portandoci ad interrogarci su noi stessi e in particolare sulle nostre abitudini.
La Laurito unisce le sue due grandi passioni ossia la cucina e l’arte; la prima
installazione è titolata La grande Bouffe, un vero e proprio ristorante ricreato alla perfezione,
con tanto di tavoli e insegna di ingresso.
Cerca infatti di rovesciare dogmi imposti da un moda tutt’altro che condivisibile, quella di chef-stars che subordinano il gusto e i sapori tradizionali al fine
di confezionare con i colori e le immagini un piatto innalzato a monumento artistico.
Le immagini di questi personaggi pluripremiati compaiono, quasi come ritratti rinascimentali
di ricchi e potenti possidenti, sulle pareti del ristorante, per completare
un discorso che non può che risultare più che coerente.
Marisa Laurito cerca di tornare alla purezza e alla semplicità di un momento conviviale
e ricreativo come lo stare a tavola sottolineando proprio ciò che più allontana
da questo.
Nel ristorante, ricreato come concentrato di errori del contemporaneo, vediamo
sistemati tre tavoli, che rappresentano, in qualche modo, la vetrina di abitudini e pensieri
sempre più generalizzati.
La critica malcelata è a tutto il fronte degli eccessi, a chi da una parte vuole che
la verdura e la frutta siano degli oggetti d’esposizione e che al mercato sceglie ciò
che più convince per l’aspetto; a chi mira all’apparenza, metafora di un’intera generazione
di esaltazione dell’effimero.
Nel secondo tavolo in cui nel piatto vediamo solo uno spaghetto e tre tristi pomodori opera si contrappone alle portate minime che vengono presentate nei lussuosi ristoranti di nomea internazionale. Dinnanzi ad esso una fanciulla emaciata e scarna realizzata da Luigi Citarrella si accinge a nutrirsi.
I sei dipinti di Salvatore Ruggeri con straordinaria ironia immortalano i ritratti, dal gusto settecentesco, di noti cuochi pluripremiati e icone delle attuali correnti culinarie. In loro l’abbigliamento è
caratterizzato da beffarda opulenza, grazia, gioiosità e lucentezza e tradiscono un
senso di frivola leziosità. I panciotti, ricamati con fili d’oro e d’argento, riproducono
motivi talmente sofisticati e fantasiosi da sembrare dei veri e propri dipinti. Tale beffarda
opulenza intende deridere i contemporanei modelli di consumo, le imperanti
mode alimentari della nostra nazione che stridono con molti Paesi e realtà sociali in
cui mancano totalmente beni di prima necessità. Ecco come i volti dei noti cuochi
Carlo Cracco, Gordon Ramsay, Davide Oldani, Gianfranco Vissani, Davide Scabin,
Ettore Bocchia, fanno da ambasciatori di nuove pratiche e fenomeni di cottura quali
la nouvelle cousine, quella biologica e la cucina molecolare. Si pensi a quest’ultima,
divenuta ormai una scienza che, partendo dall’osservazione del comportamento molecolare
dei cibi durante la preparazione, permette di trasformare la struttura molecolare
degli alimenti senza fare uso di sostanze chimiche additive. Una pratica molto
diffusa in Italia, che ha visto lo stesso Ettore Bocchia esserne grande sostenitore,
tanto da redigere il Manifesto della Cucina Molecolare Italiana. È stridente e voluto il
contrasto tra i ritratti ironici, il fasto dell’arredamento, le composizioni di raffinati cibi
e la scultura in vetroresina di Luigi Citarrella che al contrario rappresenta una macilenta
bambina guatemalteca, seduta davanti ad un dietetico pasto su un elegante e
prezioso tavolo. Dunque, ancora una volta, l’arte di Salvatore Ruggeri è una pittura
più che di accusa, di partecipazione, di lucida ed ironica denuncia dei problemi e dei
comportamenti del mondo contemporaneo, che lascia alla sensibilità di un pubblico
attento la libertà di riflettere e di giudicare