Il marmo e la corda sono messi significativamente in dialogo da Maria Dompè, che nelle sue prime opere romane abbina di frequente questi materiali di origine tanto diversa: l’uno nobile, l’altro umile. L’artista sembra mettere in scena un colloquio immaginario fra i due elementi: accostati con elegante sobrietà, quasi a suggerire nella forma un capitello appena rinvenuto, marmo e corda si raccontano vicendevolmente le proprie storie perdute e ritrovate nel tempo e nella memoria. Il travertino rammenta lo splendore dei templi antichi, l’imponenza dei palazzi imperiali, l’ingegno di ponti e acquedotti, le maestose architetture che con il loro biancore illuminavano il Mediterraneo di cultura e conoscenza; la rete ricorda i mestieri umili e necessari, le mani odorose di pesce e salsedine, l’incessante brusio delle onde e delle esistenze crude di quegli uomini, pescatori e navigatori e sognatori, che solcavano il mare nostrum affamati di vita. Testo di Cristina Antonia Calamaro