Quando si affronta l’emergenza dei profughi, il primo pensiero sembra dover essere sempre come sistemare un numero così alto di persone: dentro o fuori le città, in campi provvisori o dimore stabili, in edifici esistenti o costruiti appositamente. Così facendo, si finisce per trascurare altri aspetti: il rapporto con le comunità esistenti, l’accesso al lavoro e alle attività economiche o l’integrazione culturale.
Il mercato degli immigrati di Alexander D’Hooghe, in Belgio, segue una strategia parallela e altrettanto pertinente, una strategia collegata alla natura intima della città come luogo di produzione e di scambio delle merci. Affronta la
questione di cosa gli immigrati faranno, anziché quella di dove vivranno. Allo stesso tempo, esamina il problema di come intervengono le città europee, città che hanno anche zone degradate.
Il contributo progettuale di D’Hooghe consiste nell’introdurre forme archetipiche in elementi di calcestruzzo prefabbricato, riconoscendo che il bagaglio culturale di un edificio è importante quanto la sua efficienza strutturale. L’edificio assume così un carattere civico, trasformando il mercato in un’istituzione. Gli aspetti funzionali del rinnovamento urbano efficiente si uniscono all’intangibilità del crogiolo culturale di una migrazione imponente.
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