Accettando l’invito a partecipare alla Biennale, Al Borde ha risposto con due premesse per la propria mostra, prima ancora di sapere che forma avrebbe avuto. La prima consisteva nell’ammettere di essere “carne da macello”, incapaci di dedicare il proprio lavoro a qualcosa che non sia urgente, correndo sotto il fuoco nemico e cercando di sopravvivere continuando a fare quello che si sa fare. La seconda nella volontà di individuare ciò che è veramente necessario. Il denaro non è né l’unica, né la più importante risorsa. Altre risorse e altre forze sono a disposizione e possono fare la differenza per vincere una battaglia: motivazione, inerzia, organizzazione e persino la volontà di fare pasticci.
Per quanto possa sembrare idealista, l’opera di Al Borde non rientra nello stereotipo ingenuo del romanticismo salvatore del mondo. Non è nemmeno anarchismo. Al Borde opera all’interno del sistema, conoscendone tutte le limitazioni, con la consapevolezza che, anche se per una vittoria minore, vale la pena combattere ogni battaglia. È la ribellione della controcultura al servizio del bene comune. Essa fondamentalmente rivela l’importanza del lavoro all’interno di una determinata struttura: o la si accetta (una condizione per qualsiasi vera battaglia) o si sceglie di restare al sicuro, lamentandosi intellettualmente e teoricamente della struttura senza fare mai niente di concreto.