Manifesto estetico del Neoclassicismo europeo e ultima opera compiuta del suo autore, il “Parnaso” di Appiani è inquadrato nel ricco ambiente della sala da pranzo della Villa Reale.
Realizzato nel 1811 a seguito di un’accurata preparazione grafica e iconografica, l’affresco riprende innovandolo il tema di Apollo circondato dalle muse sul monte Parnaso, già trattato da Raffaello nella Stanza della Segnatura e, da Anton Raphael Mengs (1728-1779) nella Villa Albani a Roma. Rispetto a quest’ultimo precedente, l’opera di Appiani mostra una maggior scioltezza e complessità compositiva, visibile nell’Apollo classicamente nudo e in atto di suonare raffigurato al centro. Le raffinate scelte iconografiche sottese all’impresa, commissionata dal viceré Eugenio di Beauharnais, furono elaborate sulla scorta della consulenza del grecista Luigi Lamberti. È proprio Lamberti a sottolineare come, rispetto all’esempio di Raffaello e ancor più rispetto al recente modello di Mengs, Appiani si sia avvicinato maggiormente allo spirito della poesia antica, e in modo ancor più calzante rispetto agli stessi venerati esempi degli scultori greco-romani, i quali avevano sempre raffigurato le nove muse come isolate ognuna in un loro spazio figurale e tutte disgiunte da Apollo: «Il nostro egregio Pittore, non solo ha slontanato dal quadro tutto ciò che in qualche modo potrebbe essere straniero all’argomento, ma verso un solo punto ha condotto tutti quanti gli oggetti che lo compongono. Apollo è rappresentato nel mezzo, assiso sovra di un trono; e questa è la figura principale di tutta la pittura». Il motivo della cetra riccamente decorata suonata dalla divinità rivela innanzitutto la conoscenza della stampa di Marcantonio Raimondi tratta dal primo progetto del Parnaso di Raffaello, il quale poi, nell’affresco definitivo, sostituirà lo strumento con un più moderno violino, secondo una scelta ritenuta da Lamberti poco felice. Le novità riguardano poi le figure delle muse, disegnate a partire da complessi riferimenti eruditi alla statuaria antica e ai testi classici, ma pensate al contempo come raffigurazioni di precisi moti dell’animo, secondo la tradizione della pittura lombarda del Rinascimento.
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