Fantasia e ironia: queste le parole che maggiormente ricorrono nel definire l’arte di Bruno Munari.
Fantasia perché nulla c’è nella sua attività di più fondante e genuino. Del resto Munari stesso parla della fantasia come ciò che permette di pensare qualcosa che prima non c’era e di poterlo fare senza alcun limite. Ironia perché ogni sua idea si traduce in un gioco poetico, libero da pregiudizi, con l’arte. Ironia che si coniuga anche con uno spiazzante concetto di cosa inutile, di cui si potrebbe benissimo fare a meno ma che in qualche modo resta “in cerca” di un ruolo, di una funzione, che al momento non ha. Tra gli ironici frutti della fantasia di Munari, un posto importante lo hanno le “Sculture da viaggio”, realizzate a partire dal 1958 e declinate in varie tipologie. Cos’è una “scultura da viaggio” secondo Bruno Munari? La risposta la troviamo nel numero 359 di “Domus”, rivista d’architettura e di design, in cui le sculture sono descritte come “pieghevoli e leggere: […] da mettere in valigia e portare con sé, quando si parte: perché creino ad ognuno, nelle anonime stanze d’albergo, come un punto di riferimento col mondo della propria cultura”. A queste prime opere, facilmente trasportabili, negli anni Munari ne ha accostate altre, di dimensione maggiore, più difficili da gestire. Le ultime, come quella che si può ammirare presso la Pinacoteca di Como, sono in metallo, in acciaio o in corten (speciale acciaio ossidato) per l’esterno, non sono piegabili, anzi, le cerniere o meglio i punti di piega sono saldati, perché sono sculture di grandi dimensioni e pesanti, non più da viaggio, ma comunque trasportabili per innumerevoli esposizioni.
(R. Lietti)
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