Questo gruppo di architetti messicani si trova ad affrontare due tra le questioni oggi più pressanti. In primo luogo, la violenza e l’insicurezza legate a povertà, diseguaglianza, corruzione e alla presenza dei cartelli della droga. In secondo luogo, l’affollamento di una megalopoli, città di oltre venti milioni di abitanti destinate a diventare una realtà sempre più diffusa in tutto il mondo negli anni a venire.
In questo intreccio di violenza e sovraffollamento, gli architetti mostrano il loro intervento in un luogo vuoto, non privato (soggetto a uno sviluppo immediato), ma non ancora assurto allo status di parco pubblico. Questo territorio incerto può risultare molto familiare a gran parte delle città nei Paesi sottosviluppati: un residuo che non è stato ancora inghiottito dalla città, la “no man’s land” rappresentata da un territorio conteso, pericoloso e allo stesso tempo dotato della capacità (o della potenzialità) di radunare le persone della comunità. Gli architetti propongono una strategia per guadagnare questo territorio e trasformarlo in un bene pubblico, partendo dall’operazione più ovvia, e di conseguenza più facile da realizzare: sfruttare questo vuoto come collegamento (scorciatoia) all’interno di una pianta urbana densamente abitata. La trasformazione di uno spazio vuoto e pericoloso in luogo sicuro attraverso l’utilizzo, apre all’insediamento futuro di altri servizi e strutture ricreative urbane. Possiamo considerare tale strategia un’urbanistica a sviluppo graduale.
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