Essenze divine

Piante, fiori e frutti nei riti e nei culti della Taranto greca

Piante, fiori e frutti hanno sempre rivestito un ruolo di grande importanza nel simbolismo religioso, nei riti e nei racconti mitici di tutte le civiltà, Greci compresi.
Le piante erano usate per scopi alimentari e farmaceutici, offerte alle divinità nelle cerimonie sacre e inserite in complessi circuiti economici legati alla produzione e al commercio di beni di lusso quali spezie, cosmetici e prodotti tessili.

Prese a modello per le forme dell’architettura e i sistemi decorativi dei manufatti, hanno costituito una presenza costante nell’orizzonte mentale dei Greci, intrecciandosi con le vicende e con il culto delle divinità del loro ricco pantheon.

Melagrana (VI sec. a.C.)MArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

La melagrana: il frutto delle dee madri

Il melograno è stato istintivamente connesso dalle culture mediterranee al concetto di fecondità: fino a tempi relativamente recenti, soprattutto in area orientale, era tradizione che la sposa gettasse per terra un frutto, augurandosi prole numerosa.

Ma la melagrana possiede anche una valenza funeraria: facendone mangiare a Kore un unico chicco il Signore degli Inferi Ade riesce a impedire il ritorno definitivo della fanciulla, da lui rapita per farne la sua sposa, presso la madre Demetra.

Melagrana (VI sec. a.C.)MArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Riproduzioni del frutto, attributo nel mondo greco di varie divinità femminili che hanno incarnato l’archetipo della Dea Madre, compaiono dunque spesso nelle tombe come auspicio di rinascita.

Lo dimostra un bell’esemplare in terracotta, databile al VI sec. a.C., rinvenuto nell’area della necropoli arcaica di Taranto (Contrada Corvisea). Il frutto è qui coronato da una testa di rapace. 

Cratere a volute del Pittore della Nascita di Dioniso - vista frontaleMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

La vite e l’edera: le piante di Dioniso

Dioniso è il dio dalle mille identità, che porta scompiglio agli uomini e li libera attraverso la follia. La sua natura complessa è riassunta metaforicamente da due piante accomunate dalla forma lobata delle foglie: vite ed edera.

Il legame di Dioniso con la vite è ben noto; meno scontato è quello con l’edera, le cui foglie ornano le bende rituali sul capo del dio e dei suoi seguaci: Kissos, nome greco della pianta cui era attribuita la facoltà di mitigare l’ebbrezza, era un appellativo del dio.

Cratere a volute del Pittore della Nascita di Dioniso - vista frontaleMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Oscurità, freddezza, umidità, le caratteristiche che fanno dell’edera una sorta di doppio oscuro della vite, si trovano a convivere, nella multiforme personalità di Dioniso, con il loro opposto: calore e luce abbagliante.

Il grande cratere a volute da Ceglie del Campo (Bari), che ha dato nome al ceramografo noto come Pittore della Nascita di Dioniso (inizi IV sec. a.C.), rappresenta la prodigiosa generazione del dio dalla coscia del padre Zeus.

Cratere a volute del Pittore della Nascita di Dioniso - vista frontaleMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Questo espediente consentì a Ermes di salvare il piccolo Dioniso, estratto anzitempo dal ventre della madre Semele, principessa tebana amante di Zeus, prima che fosse incenerita per aver chiesto al divino amante di mostrarsi nel suo reale aspetto.

Dioniso, con il capo coronato di foglie d’edera e pampini di vite, protende le braccia verso un’anonima figura femminile (Hera o la dea del parto Ilizia) alla presenza delle altre divinità dell’Olimpo. 

Cratere a volute del Pittore delle Carnee - lato AMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Su un secondo cratere apulo da Ceglie del Campo, attribuito al Pittore delle Carnee (fine V sec. a.C.), Dioniso adulto siede su una roccia circondato dai membri del suo corteo (thiasos): i Satiri, creature semiferine con coda e orecchie caprine...

...e le Menadi, le seguaci di Dioniso che, in preda alla sacra frenesia infusa loro dal dio, si abbandonano a danze sfrenate nelle solitudini montane, lontano dai centri abitati che hanno abbandonato obbedendo a un irresistibile richiamo.

Cratere a volute del Pittore delle Carnee - lato AMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Dioniso, con gli stivali da cacciatore, indossa la benda rituale di lana (mitra) dalla quale spuntano foglie d’edera. Tralci d’edera avvolgono anche l’estremità del bastone – noto come tirso – impugnato da una Menade che danza vorticosamente.

Al bastone di Dioniso vanno invece probabilmente riferiti i boccioli o inflorescenze che spuntano dietro il suo capo, forse capsule di papavero da oppio, coltivato in Grecia dall’inizio del I millennio a.C. e già noto per le sue proprietà psicotrope.

Capsule di papavero da oppio (III sec. a.C.)MArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Il papavero da oppio: fertilità e oblio

Databili in età ellenistica e provenienti da un ignoto contesto tarantino, questi modellini votivi in terracotta riproducono capsule di papavero da oppio. Contenenti migliaia di semi, si prestavano a simboleggiare la promessa di una prole numerosa.

Si spiega così l’associazione, come simbolo di fecondità, a diverse divinità femminili (Hera, Demetra, Kore, Afrodite) che vigilavano sul passaggio da ragazza sessualmente matura e pronta per le nozze (nymphe) a donna sposata e madre (gynè).

Urna cineraria - vista completaMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Il mirto: amore e morte

Il mirto, caratteristico della macchia mediterranea, possedeva per i Greci una duplice valenza, erotica e funeraria. La prima discende dalla connessione con le arti seduttive di Afrodite: in ambito nuziale era simbolo di fecondità e prosperità.

La valenza benaugurante si estendeva oltre la vita terrena: gli iniziati ai culti misterici, ai quali era promessa una sorte privilegiata nell’Aldilà, si cingevano il capo con corone di mirto, presenti - in metallo e terracotta - in numerose tombe della Taranto greca.

Urna cineraria - dettaglioMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Ne è testimonianza la coroncina in foglie di bronzo e bacche di terracotta, rivestite di foglia d’oro, posta attorno al collo di un vaso (hydria) in bronzo usato come cinerario in una tomba in via Tirrenia a Taranto (seconda metà del IV sec. a.C.).

Corona - vista frontaleMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

La quercia: l’albero di Zeus

Nell’ambito della produzione di corone funerarie in foglie di lamina d’oro, diffusa a Taranto in età ellenistica, a un’iniziale varietà di essenze vegetali rappresentate (alloro, ulivo, rosa), subentra un’assoluta preponderanza della quercia.

Corona - vista lateraleMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Asse portante del mondo, simbolo di forza e vigore fisico e morale, la quercia è sacra a Zeus, signore del fulmine e padre degli dèi. Nel santuario di Dodona in Epiro, il dio pronunciava vaticinî attraverso lo stormire delle fronde di questo albero.

Pinax (IV sec. a.C.)MArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

La palma dei Dioscuri

I Dioscuri sono una coppia di divinità gemelle nate dall’amore tra Leda, sposa del re spartano Tindaro, e Zeus, che si unì a lei in forma di cigno. 

Raffigurati spesso in piedi a fianco dei loro cavalli, i Dioscuri recano in mano come attributo un ramo di palma. Simbolo solare di rigenerazione e di vittoria, richiama la funzione salvifica delle divinità, invocate nei momenti di pericolo.

Pinax (IV sec. a.C.)MArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Tale iconografia sarà ripresa in ambito cristiano come simbolo di vittoria dei martiri sulla morte: i Santi Medici Cosma e Damiano, gemelli e martiri di origine siriaca, la cui venerazione è ancora oggi molto radicata in Puglia, recano lo stesso attributo dei Dioscuri.

Lekythos con decorazione a rilievi policromi - lato AMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

I giardini di Adone

Una lekythos – piccolo vaso utilizzato per contenere unguenti profumati – rinvenuta nel 1971 in una tomba femminile di via Terni a Taranto ci fornisce una vivida rappresentazione di un rituale intimamente legato al mondo vegetale.

Prodotta in Attica nel IV sec. a.C. con la tecnica a rilievi policromi – figurine a rilievo ottenute da una matrice e applicate al vaso ancora umido – mostra alcune donne riccamente abbigliate durante le cerimonie annuali in onore di Adone. 

Lekythos con decorazione a rilievi policromi - lato AMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Per celebrare l’unione di Adone con Afrodite, concessa da Zeus per i mesi primaverili ed estivi, le donne greche ricreavano al culmine dell’estate, sui tetti delle abitazioni, dei giardini in miniatura ottenuti da semi a germinazione rapida posti in vasi di terracotta.

Sulla nostra lekythos è un giovane Erote, arrampicandosi su una scala a pioli, a portare il piccolo giardino in un’anfora spezzata.

Lekythos con decorazione a rilievi policromi - lato AMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Come l’amore tra Afrodite e il suo giovane e sfortunato amante, tuttavia, i “giardini di Adone” avevano vita breve: a causa del caldo seccavano in fretta, tra pianti e lamenti delle donne disperate per il ritorno di Adone nel regno dei morti.

Lekythos con decorazione a rilievi policromi - lato BMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Ad assistere all’esposizione del giardino di Adone (kepos) da parte dell’Erote sono una serie di figure femminili immerse in un’atmosfera carica di sensualità.

Donne adorne di gioielli e vesti raffinate, a seno scoperto, che inebriate dal fumo odoroso di un thymiaterion – un incensiere – suonano l’arpa o attendono trepidanti la sacra unione di Adone e Afrodite. 

Lekythos con decorazione a rilievi policromi - lato CMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto


Accanto a loro la divinità – nella funzione di Epitragia, l’Afrodite che cavalca il capro – sale al cielo mentre un astro le brilla sul capo. È la dea che sovrintende alle manifestazioni più fisiche e sensuali dell’amore, compreso quello mercenario.

Loutrophoros con Pelope e Ippodamia - lato AMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

La vegetazione dei Campi Elisi

Anche il mondo dei morti, nell’immaginario greco, aveva la sua vegetazione tipica. Sui vasi funerari a figure rosse apuli del IV sec. a.C., compaiono spesso fantasiosi girali, fiori e infiorescenze che sorgono da cespi d’acanto.

Loutrophoros con Pelope e Ippodamia - lato A dettaglioMArTA - Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Questa vegetazione esuberante, probabile riferimento alla flora dei Campi Elisi, si anima talvolta di teste umane femminili e maschili, come quella con berretto frigio sulla spalla di una loutrophoros del Pittore tardo-apulo del Sakkos Bianco (320-310 a.C.).

In riferimento all’origine di questi motivi floreali, usati non solo in ambito funerario ma anche nella decorazione di edifici con diversa destinazione d’uso, si è parlato di una “maniera tarantina”, la cui fortuna raggiunge regioni lontane come la Macedonia.

Ringraziamenti: tutti i partner multimediali
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