L’artista, nipote di Canaletto, ne assunse l’appellativo rimanendo a lungo all’ombra di quello zio, più famoso, che gli fu maestro e di cui interpretò appieno il gusto vedutistico. Seppe, tuttavia, maturare un linguaggio artistico del tutto autonomo, che raffinò durante i suoi numerosi viaggi in Italia e in Europa, conclusi a Varsavia, dove egli restò fino alla morte. La tela, con il suo pendant e l’altra coppia in Galleria, appartiene alla produzione giovanile dell’artista, e costituisce un’interessante testimonianza del suo periodo romano. Si tratta di un cosiddetto “capriccio”, ovvero quel genere pittorico in cui i luoghi della memoria si mescolano alla fantasia ridisegnando una città non reale ma possibile ed immaginaria. In questo caso l’inquadratura, anticipata in primo piano da un fittizio arco in rovina che funge da boccascena, propone uno scorcio del Campidoglio dai piedi della cordonata michelangiolesca, di cui sfrutta l’effetto scenografico includendo anche la chiesa di Santa Maria in Aracoeli. Alla sommità della scala si erge il gruppo marmoreo con Castore, mentre sulla piazza si affacciano il secentesco Palazzo nuovo, in scorcio, e la veduta parziale del Palazzo Senatorio. Nel riprodurre gli edifici classici, tanto amati dagli stranieri che intraprendevano il consueto “grand tour” in Italia, più che l’aderenza alla realtà, Bellotto vagheggia quel senso del pittoresco e della memoria delle perdute antiche grandezze.