Insieme ad Hartung rappresenta la personalità più autorevole dell’École de Paris, definizione affibbiata a un gruppo di artisti che dal secondo dopoguerra esplora il terreno dell’Informale nella capitale transalpina. Come il tedesco naturalizzato francese, espone per la prima volta da solo alla Galleria di Lydia Conti a Parigi nel 1949. È Soulages stesso a menzionare tra le sue suggestioni i reperti preistorici di Rodez e le testimonianze romaniche della sua regione visitati in gioventù. Da subito dedito all’astrazione sul versante segnico e gestuale con Composition Soulages mette in campo la personale propensione per una solida sintassi fatta di segni larghi e risoluti che si sostengono l’uno sull’altro, denotando una marcata attitudine costruttiva memore di una cultura “dolmenica”. Rispetto ad altri esponenti della corrente segnica dell’Informale, come Mathieu e Hartung, che fanno della velocità esecutiva la loro cifra, Soulages pare muoversi con tempi più posati e meditati, poco riconducibili a quella metodica irrazionale e istintiva, rimandando piuttosto a una pratica disciplinata e lenta, si direbbe orientale, come quella mikado, il familiare gioco dei bastoncini in cui fondamentali sono concentrazione e pazienza. Sono passati pochi anni da quando, nel 1946, si è insediato a Courbevoie (un trasferimento concomitante con i suoi inizi pittorici informali), ma questo lavoro evidenzia già le coordinate future della sua poetica, dove il nero, l’elemento cromatico-segnico basilare per la costruzione dei suoi lavori, assurge progressivamente al ruolo di assoluto protagonista, per farsi perentoria ed esclusiva presenza nelle pitture dagli anni Settanta in avanti. Nel dibattito critico aperto negli anni Cinquanta in cui si fronteggiano gli arrembanti sostenitori della nuova generazione di artisti dell’Espressionismo astratto e quelli dell’informale europeo, riassunto nella bipolarità toponimica New York – Parigi, Soulages è tra i pochi artisti europei reputati dalla critica d’oltreoceano meritevoli di stare sulla scia degli innovatori americani, alle quali si riconosceva un maggior tratto innovativo per forza, freschezza, velocità di esecuzione e una rinnovata monumentalità, prerogativa quest’ultima letta anche in chiave politica in quanto manifestazione della volontà di potenza degli Stati Uniti, risolutori del secondo conflitto mondiale. Ironia della storia, il 21 ottobre 1959 si inaugura a New York uno dei templi dell’arte contemporanea, la nuova sede del Guggenheim. Tra i visitatori c’è anche John Coltrane, allora già riconosciuto innovatore e sperimentatore dell’avanguardia jazzistica e fautore in musica di una rivoluzione assimilabile a quanto Jackson Pollock e gli artisti della Scuola di New York avevano portato in pittura. Di quella visita rimane una foto scattata da William Claxton in cui il musicista è immortalato davanti a un dipinto, non di Pollock o di Rothko, bensì di Soulages. Senza rendersene conto, Coltrane sembrava contravvenire i gusti e le preferenze dell’avanguardia newyorkese per aver scelto come simbolo della sua nuova arte una tela di Soulages, che, tra l’altro, ben si adattava alla curvatura della struttura, diversamente dalle opere degli artisti americani, i quali, infatti, già dall’inaugurazione dell’edificio avevano duramente criticato l’architettura del museo proprio perché poco adatta ad accogliere i grandi formati dei loro dipinti.
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