Ghizzardi nasce nel mantovano, non lontano dai luoghi che abitò colui che è considerato il più importante artista naif del Novecento: Antonio Ligabue, di quasi vent’anni più anziano. Entrambi fanno della forza espressiva quasi violenta il cardine della capacità di rappresentazione. Entrambi amano il ritratto, che in Ghizzardi diviene un tema quasi ossessivo. In meno, il viadanese ha la gamma intensa dei colori, che in lui si spengono in toni grigiastri o bruni. In più, dimostra capacità creative in altre arti, fra cui la scultura e la letteratura: notevole è la sua autobiografia dal titolo “Mi richordo anchora”. Ghizzardi dipinge per quasi tutta la vita fisionomie bizzarre dei personaggi della campagna, che siano amici, donne procaci, figure passeggere. Trasforma così queste persone in altrettanti idoli, che sembrano talvolta i burattini di qualche religione ancestrale. La signora qui rappresentata porta nello sguardo una cattiveria indimenticabile. I suoi occhi felini non riescono a redimere una fisionomia consegnata senza rimedio alla tristezza provinciale. Se il pittore sembra quasi disconoscere volontariamente i mezzi del proprio stile, semplificando oltre misura le sue creazioni, dimostra tuttavia una qualità espressiva capace di distruggere ogni banalità quotidiana, per giungere ad un’impietosa descrizione dell’animo umano.