Costruiti dal 1967, gli igloo di Mario Merz condensano, formalmente e semanticamente, i concetti di espansione e introspezione. La struttura architettonica primaria, appartato rifugio e simbolo dell’immensa volta celeste, riassumendo nella figura emisferica la dialettica tra lo spazio pubblico e quello intimo dei processi mentali, rivela la forma organica ideale all’interno della quale ambire a una dimensione totalizzante. Come le spire geometriche del guscio di chiocciola (elemento naturale caro all’artista, cui è dedicato il video-tape del 1970 intitolato «Lumaca»), la semisfericità dell’igloo esemplifica una concezione circolare del tempo, inteso come eternamente ripiegato su se stesso, che, presente sin dai dipinti degli anni Cinquanta in forma di cerchi intrecciati a evocare la crescita biologica, è conseguente alla forte attrazione provata per la temporalità espressa da T. S. Eliot nella sua poesia. La proliferazione naturale, principio delle opere sulla serie dei numeri di Fibonacci, ritorna anche nell’uso delle sostanze e dei prodotti di cui sono costituiti gli igloo. Ottenuti fissando le lastre di granito su scheletri metallici, impilando sacchi di creta o saldando con il mastice vetri rotti ad un’impalcatura portante, essi incoraggiano una comprensione soggettiva della materia, condividendo con l’arte povera, il post-minimalismo di Antiform, la land art e una nutrita schiera di artisti concettuali, il grande interesse per l’accavallamento di natura e cultura. Inoltre, come ha scritto Carolyn Christov-Bakargiev, il paradigma di accumulazione alla base degli igloo ricorda la pratica di montaggio con cui Ezra Pound, altro amore letterario, combinava i rifiuti della cultura nell’epica moderna dei Cantos.
«Igloo con albero», realizzato per la personale inaugurata nel febbraio del 1969 presso L’Attico di Fabio Sargentini, autorimessa romana trasformata in galleria d’arte, esibisce la volontà, espressa per la prima volta allora, di concepire i lavori come risposta diretta al contesto espositivo. La trasparenza della forma, unita alla presenza dell’elemento naturale, che trapassando la cupola sembra infrangerla, dialogava in quell’occasione con i materiali eterogenei delle altre opere. Fornendo il corredo visivo all’urgente domanda «Che fare?», ripresa da un pamphlet di Lenin del 1902 e tracciata con il fango su una parete, gli assemblaggi in mostra e lo scorrere incessante dell’acqua da un rubinetto lasciato volutamente aperto riproponevano, a un anno dal maggio 1968, il dramma dell’impegno individuale nella società moderna.
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