La “città sociale” delle periferie presenta molte sfide. La sua mediocrità e banalità a volte è stata la conseguenza di un’emergenza politica e sociale in cui la mancanza di qualità era il prezzo da pagare per garantire la quantità. A volte è stata la conseguenza della visione ristretta del mercato, che considera il tessuto urbano come un mero strumento di guadagno. A volte è stata la conseguenza della cecità ideologica che si verifica quando si antepone la teoria urbanistica al buonsenso. Che fare della separazione delle funzioni? Che fare di un grattacielo ad alta densità abitativa con una bassa qualità della vita? Come si trasformano gli spazi aperti attorno agli edifici in spazi pubblici dotati di un senso? Che fare dei giganteschi capannoni industriali che non corrispondono all’era dell’economia della conoscenza? Potremmo demolirli tutti, ma in un’epoca in cui la sostenibilità conta (finalmente), un approccio del genere non sarebbe solo uno spreco di energia, ma anche un’occasione mancata per la creatività.
È questo il genere di domande sollevate dal gruppo di lavoro che Renzo Piano, in occasione della sua nomina a senatore a vita, ha creato al fine di generare benessere sociale e consapevolezza pubblica.
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