Marina

Durante gli anni Cinquanta, Licini approda alle “metafisiche rappresentazioni del silenzio” (G. Marchiori) delle Marine e dei Notturni. Il suo immaginario poetico si purifica attraverso una rinnovata meditazione sulle geometrie astratte degli anni Trenta, tanto che, rileggendo questa stagione di lavoro, è quasi naturale riportare alla mente alcune riflessioni dell’artista di quel tempo oramai lontano. Annotava allora Licini: “Dimostreremo che la geometria può diventare sentimento”; “i segni esprimono la forza, la volontà, l’idea. I colori la magia. Abbiamo detto segni e non sogni”.
In Marina, ascritta alla stagione estrema dell’artista, l’impaginazione del dipinto riprende un costrutto tipico della sintassi liciniana. Dalla linea dell’orizzonte sale in diagonale verso sinistra una linea di fuga sulla quale si articola una costruzione di triangoli in bilico verso l’infinito. La superficie è scompartita in tasselli di colori intensi e luminosi, i quali trovano la loro naturale rispondenza nel colore complementare che li affianca o li fronteggia. Questo colore, che appunto attinge le radici nella stagione geometrica degli anni Trenta, è descritto da Flaminio Gualdoni come “pieno e pulsante, fatto di temperature, di timbri sonori e ambigui, teso e denso, capace di vibrare anche quando la stesura sia piena e uniforme”. E scrive ancora Gualdoni: “è un colore dalle evidenze straniate di stendardo e dalle crescenze emotive che lo fanno autonomamente simbolico, e nella sua intransitività splendente capace di farsi l’identità stessa della plenitudine emotiva: il luogo proprio della irrealtà, in bilico tra l’esperienza del mondo e quella dell’infinito”.