Carla Lonzi
Se il termine di informale ha favorito il divulgarsi delle opere degli artisti del dopoguerra sotto una luce forse troppo gene-
ralizzata, ma non incompatibile con una giusta impostazione del problema, è prevedibile che i termini di new-dada e di pop-art
creino il terreno adatto a interpretazioni socio-ideologiche, delle quali in
Italia abbiamo avuto un buon assaggio. Specialmente
i critici d'arte provenienti da altri settori culturali non si sono risparmiati in tal senso e il binomio di mass-media in corsivo
saltella nelle loro paginette con la frequenza di un lampeggiamento pubblicitario. I nostri moralisti, ansiosi di applicare il
loro veto o il loro benestare (e talvolta, persino, il loro illuminato consiglio), si sono subito chiesti se un'arte che facesse
ricorso a oggetti e immagini preesistenti, frutto di una civiltà tecnologica, dovesse interpretarsi come una denuncia di detta
civiltà oppure come una colpevole accettazione di essa, mentre per un'accettazione non colpevole si sono mostrati propensi in
pochi. Guttuso, pro domo sua, ha creato un parallelo tra pop-art (pop è un'abbreviazione di popular) e realismo socialista,
senza peraltro guadagnarsi la riconoscenza della Pravda e dei suoi compagni di partito. Quelli francamente scoccati hanno tro
vato piú confortevole e europeo aspettare i benefici di una nuova figurazione di là da venire, per il momento compendio di
tutti i velleitarismi; altri, addirittura, hanno scoperto che un gruppetto di pittori romani poteva considerarsi «oltre la pop-
art. Una minoranza di fedeli al dada storico vive nella convinzione che tutto ciò che sta accadendo (e accadrà) nell'ambito
dell'oggetto non può che essere ripetizione e volgarizzazione di un gesto all'origine squisitamente di élite.
La Biennale di
Venezia, offrendoci un eccezionale campionario e di new-dada e di pop-art e di nuova astrazione, ha reso
subito evidente la sfasatura di un parlare sociologico privo di legami con un metodo di lettura del linguaggio pittorico, verità
in altri settori - almeno teoricamente acquisita.
Se i pittori surrealisti hanno rotto la logica di costituzione e di incontro delle immagini a favore della casualità, spetta agli
informali l'aver applicato alle tecniche stesse della pittura un principio di realizzazione che dipendesse strettamente dalla
nozione di inconscio. Questo principio di realizzazione fu, in forme diverse e variamente applicate, l'automatismo. Ad
esso, vero strumento di liberazione nel quindicennio tra il '40 e il '55, si possono far risalire conquiste fondamentali
per lo sviluppo dell'arte moderna. Chi, ancora oggi ne parla, o peggio ne scrive, come di un ultimo ottocentismo e, sem-
plicemente, un asino. Non esiste movimento valido che non ne sia debitore, al punto che le prospettive delle nuove ricerche
artistiche appaiono proporzionali all'ampiezza di significato da esse attribuita all'informale. Quando si parla di una fine del-
l'informale si intende propriamente la fine della funzione liberatrice connessa al comportamento automatico nella pittura.
Infatti, quei valori di concretezza pittorica che l'informale aveva scoperto come valori autonomi da ogni riferimento a signi-
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