Patchwork city, riprendendo il tema già introdotto con gli “abiti” (Abito da sera, 1996 e Abito da sera, 1997) realizzati anch’essi con i sacchetti di polietilene che quotidianamente si usano per fare la spesa o per raccogliere la spazzatura, diventa metafora di un racconto.
Fabula e intreccio, trama e ordito giocano insieme e si rincorrono creando un tessuto multicolore di relazioni in cui ogni filo è portatore di storie, di gesti quotidiani, di incontri, di sogni.
L’universo femminile indagato negli “abiti”, concentrando sinteticamente realtà e desideri dall’ambito casalingo a quello della moda, diventa qui una delle tante storie che confluiscono nel più ampio racconto dedicato alla città.
Il tessuto urbano è realizzato attraverso una trama di fili di sacchetti di plastica tagliati, annodati ed intrecciati all’uncinetto a punto basso, proprio come si facevano una volta le coperte di lana; un richiamo all’oralità e alle antiche narrazioni delle donne mentre lavoravano a maglia.
I fili si snodano e s’intrecciano creando, lungo il fiume, il disegno ortogonale delle strade e la trama che unisce le case, “cubotti” in tetrapak bianco di varie dimensioni che suggeriscono l’idea di edifici freddi ed anonimi.
Vista dall’alto sembra un grande pizzo o una grande coperta che avvolge, protegge e riscalda, ma nel bianco del tetrapak, opaco, monocromo, così diverso dai materiali luccicanti e seducenti usati da Enrica, e nella forma geometrica e perfetta del solido, rimanda alla purezza delle città ideali del Rinascimento.
Patchwork city è anche un’occasione di riflessione e studio dei sistemi urbani e dei loro rapporti con il territorio: vi sono infatti varie versioni di Patchwork city ognuna delle quali mostra diverse soluzioni urbanistiche: la città che sorge lungo il fiume, la città in campagna, la città con schema ortogonale….
È presente anche un legame con Le città invisibili di Italo Calvino, in particolare con Leonia. L’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove, creando tutt’attorno una montagna di rifiuti che, da un momento all’altro, possono ricaderle addosso come una valanga.
Come in molti altri lavori, anche in questo caso, il progetto per la realizzazione di quest’opera nasce come un grande lavoro collettivo in progress in cui l’artista ha pensato di coinvolgere, prima e durante la mostra Le trame di Penelope: Enrica Borghi, Alice Cattaneo, Name Diffusion. Opere e workshop, (Civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate, 10 novembre 2007– 10 febbraio 2008) bambini, ragazzi e singoli visitatori. All’inizio della mostra l’opera era solo abbozzata dall’artista e appariva come una sorta di archetipo pronto a prender vita, forma e significato nel tempo e nello spazio grazie al lavoro di tutti. Uno stimolo allo scambio, alla relazione e al racconto di sé che attraverso l’intreccio del filo sarebbe diventato trama muta di incontri, gesti e pensieri.
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