A cavallo fra gli anni venti e trenta Calder è solito trascorrere lunghi soggiorni di studio e lavoro a Parigi, dove, dapprima partecipa al gruppo Abstraction-Création e finalmente, nel 1932, espone per la prima volta alla Galleria Vignon - quella di Marie Cuttolì, collezionista delle avanguardie - trenta opere mobili che apriranno la strada ai futuri mobiles. Di queste, infatti, quindici sono azionate artificialmente da motori, altre invece si compongono di parti naturalmente oscillanti. Successivamente queste costruzioni potranno essere sia dotate di un sostegno sia sospese in aria, in genere costituite da lamelle in metallo dipinte, unite da uno scheletro metallico di esili vene e steli. A dare il nome a queste strutture fluttuanti, leggiadre e capaci di captare ogni minimo spostamento dell’aria, in diniego dei caratteri fondanti della scultura tradizionale - gravità e staticità - pare sia stato Marcel Duchamp in visita alla mostra dell’amico americano. Il contesto parigino e le dense frequentazioni d’avanguardia rimandano l’attinenza meccanica e biomorfica di questi lavori ai motivi organici della pittura e della scultura surrealista di Jean Mirò e Jean Arp. L’interesse di ascendenza dadaista per il movimento, meglio se imprevedibile e casuale negli esiti e nelle forme, che in Calder si sposa con la propensione per il linguaggio astraente e fortemente stilizzato, è stimolato dall’attenzione per le culture primitive, che per l’artista significa essenzialmente il patrimonio etnico degli indiani d’America, conosciuto durante la gioventù errabonda per gli Stati Uniti. Queste suggestioni danno vita ad anatomie astratte, come questo Grande mobile rosso, sempre in movimento con calcolato equilibrio, con l’obbiettivo di creare un equivalente visivo dell’armoniosa e al tempo stesso imprevedibile attività della natura.