L’irruzione di Herzog & de Meuron sulla scena architettonica è stata potente per il netto contrasto con le tendenze dominanti, sature di forme e gesti inutili. Associata molte volte a movimenti artistici austeri e concettuali, la loro architettura era al limite della costruzione pura, non per la volontà di sfoggiare virtuosismi materiali, ma come obiettiva intensificazione del significato: le serigrafie su vetro hanno spostato l’attenzione sul rivestimento e non sul volume. Lastre di fibrocemento accatastate come se l’edificio fosse un mero accumulo di pezzi. Torcere una tegola di rame per introdurre tensione nell’elemento e trasparenza per guardare attraverso. La totale assenza di componenti convenzionali come finestre, colonne, tetti, porte ha fatto aumentare il mistero degli oggetti e l’originalità della loro lingua.
I loro progetti recenti sembrano essere una sorta di ritorno alle origini: sono presenti una certa fiducia in se stessi, la maturità e la freschezza di chi non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno. E questo è molto apprezzato in architetti che sono un modello per molte persone: il Parrish Art Museum di Southampton, NY, il Gym in Brasile o il Ricola Kräuterzentrum (Herb Center) in Svizzera sono edifici semplici, che vanno dritti al punto e introducono una sana immediatezza nel dibattito architettonico recente. L’ultimo dei lavori menzionati – che utilizza la terra battuta come materiale principale e che è stato ritratto nel recente film di Amos Gitai Reflections on Architecture – è un buon esempio della loro libertà professionale e una prova di come cambino i paradigmi: un paio di decenni fa, chi mai avrebbe messo in discussione che l’unico obiettivo di un impianto industriale fosse una costruzione utile ed efficiente? Oggi, l’ordine del giorno dev’essere sostenibile: costruire con materiali a basso impatto ambientale è diventata una priorità.
Inoltre, la loro pratica è sempre stata interessata a fenomeni che oltrepassano il campo dell’architettura, esplorando i legami con la letteratura, l’arte e il cinema. In questo caso, hanno invitato Amos Gitai, regista israeliano che ha studiato architettura, a presentare il documentario Bayit (Casa). Il riferimento familiare del titolo, che dovrebbe alludere all’intimità della vita privata, è utilizzato in questo caso come modo per riflettere sul conflitto politico e sociale di un territorio. Bayit, spiega il regista, è “la storia di una casa nella parte occidentale di Gerusalemme, abbandonata dal suo proprietario, un medico palestinese, durante la guerra del 1948, requisita dal governo israeliano come vuota, affittata a immigrati ebrei algerini nel 1956, acquistata da un professore universitario che si impegna a trasformarla in una villa patrizia”. Il cantiere è come un teatro i cui personaggi sono gli ex abitanti, i vicini, gli operai, il costruttore e il nuovo proprietario. La televisione israeliana ha censurato il film.