Se in geometria razionale la retta è un insieme di punti totalmente ordinato allora pare del tutto naturale come dai primi “Buchi” del 1949 Lucio Fontana arrivasse a proporre, nel 1958 alla galleria milanese Il Naviglio, i primi lavori con i cosiddetti “Tagli”, poi battezzati dall’artista “Attese”; al singolare se il taglio era uno solo, al plurale se erano più di uno. “Attese” nel senso di sospensioni, pause, ritardi, dinamismi che mutano con il nostro sguardo in quanto fatti di ombre. Impossibile scegliere un’opera fra le altre poiché fin da subito furono concepite come una sorta di ciclo aperto, dove già il gesto del fendere la tela portava in sé lo stigma della riproducibilità perpetua in infinite soluzioni, come i Quanta, un insieme di tagli su diverse superfici irregolari che potevano comporsi a piacimento. Evidentemente li considerava la sua icona più rappresentativa, se per la sala personale alla Biennale veneziana del 1966 scelse proprio le tele recise. Quando nacquero, nei mesi iniziali del 1958, si trattava di tagli brevi dei quali rimanevano visibili le sfilacciature dell’ordito reciso; non avevano necessariamente fondi monocromi, ma erano dipinti acquerellati e solcati da fenditure. In seguito il colore si riduce e i tagli si fanno meno casuali acquisendo una più severa eleganza, mentre la forma della tela poteva essere anche poligonale o a rombo. I primi rivolgevano spesso i loro lembi all’infuori, ma presto Fontana comincia a ribaltarli staccandoli dal telaio per riattaccarli dalla parte opposta; la ferita veniva poi protetta con una garza nera, cosicchè spiandoci dentro si poteva vedere un passaggio dalla luce all’ombra, dalla piattezza a profondità insondabili.