Frutti, oggetti domestici e uno strumento musicale giacciono abbandonati in un apparente disordine su uno spiazzo di terra; in realtà una sapiente regia organizza il raffinato repertorio compositivo delle due tele del pittore reggiano Cristoforo Munari in una struttura a piramide dall’improbabile equilibrio. Le misure identiche dei due dipinti, l’uso degli stessi elementi stilistici e lessicali fa supporre che costitituissero un pendant eseguito tra il primo e il secondo decennio del Settecento, forse su diretta committenza dei Sanvitale, della cui collezione facevano infatti parte.
Munari, che a Roma era entrato in contatto con la maniera più elegante della natura morta settecentesca costituita soprattutto dagli artisti stranieri come Christian Berentz, sceglie gli oggetti da rappresentare per la loro preziosità e per le loro caratteristiche luminose, materiali e cromatiche.
La luce tagliente ricade dall’alto creando una linea d’ombra trasversale che taglia il piano d’appoggio, evidenzia ogni caratteristica materica e fa risplendere le bucce rugose degli agrumi, la candida superficie delle porcellane di Delft, la brillante vernice arancione del bucchero toscano e le fragili trasparenze dei cristalli. E’ questa luce che restituisce alle cose un’apparenza di concretezza e di fisicità traendole dall’ombra scura dello sfondo, in una riflessione sulla precarietà del tempo e dell’esistenza tipica del tema delle Vanitas.
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