Ricordava Capogrossi, l’avvio della propria attività: «Avevo dieci anni e mi trovavo a Roma. Un giorno andai con mia madre in un istituto di ciechi. In una sala due bambini disegnavano. Mi avvicinai: i fogli erano pieni di piccoli segni neri, una sorta di alfabeto misterioso,ma così vibrante che, per quanto a quell’età non pensassi affatto all’arte, provai una profonda emozione» . Il modulo spaziale cui il pittore pervenne nel dopoguerra, dopo la pittura tonale praticata nell’ambito della Scuola Romana, non segna una frattura con il passato, situandosi piuttosto lungo un percorso evolutivo coerente che, volendo cogliere la tensione derivata dall’essere immersi nella realtà, sulla scorta dell’insegnamento ricevuto nell’infanzia dai due piccoli ciechi, intende estrarre dalla molteplicità delle cose un unico segno. Al processo di condensazione del reale si accompagna nelle Superfici l’estrema libertà di combinazione cui il segno è sottoposto, una “serialità sui generis” che immette nelle maglie regolari del reticolo geometrico un senso di proliferazione organica, resa ancor più evidente nelle tele in cui, al già scomposto tessuto segnico, si sovrappongono, secondo il metodo figurativo del collage, finestre o tagli caratterizzati da differenti rapporti spazio-temporali. Nella Superficie n. 141 gli accordi tonali e formali dello sfondo - se di relazione tra sfondo e figura si può ancora parlare - contrastano con gli strappi segmentati che attraversano la struttura della tela dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra giustificando, a livello percettivo, una duplice lettura in termini di direzione e velocità.