Il progetto di Tadao Ando per Punta della Dogana a Venezia ha dovuto confrontarsi con la questione del turismo di massa conteso da due forze opposte: il patrimonio culturale e l’arte contemporanea. Il primo attrae le masse mantenendo i luoghi immutati nel tempo, il secondo le attira con la promessa di un cambiamento continuo. Per dirla con Paolo Baratta: “Il patrimonio culturale si prende cura delle pietre di Venezia, le ossa; le istituzioni culturali si preoccupano di far sì che il sangue continui a scorrere nelle sue vene”. D’altra parte, il turismo in sé rappresenta un fenomeno controverso: costituisce un’enorme fonte di introiti, soprattutto a Venezia, ma allo stesso tempo depreda i luoghi in cui arriva. Il turismo di massa presenta un paradosso: permette che tutti, e non solo pochi eletti, possano godere di un luogo di pregio, ma allo stesso tempo rappresenta una minaccia per la qualità di quel luogo.
La battaglia di Ando è consistita nel conciliare tutte queste forze. In linea di principio, la sua architettura avrebbe dovuto essere in grado di farlo: semplice, diretta, pulita, attributi che dovrebbero essere graditi agli alfieri del patrimonio culturale e che rispecchiano la perfetta neutralità che gli spazi espositivi tendono a richiedere. L’austerità e la pulizia dell’architettura di Ando permettono che le pietre e il sangue non siano forze contrapposte, ma complementari. L’architetto voleva solo che ci fosse una coppia di colonne all’esterno del complesso di Punta della Dogana per segnare la nuova epoca che stava per cominciare con la trasformazione della vecchia struttura. E qui sono iniziati i problemi. La sua installazione racconta questa storia e ha il pregio di condividere con un pubblico più ampio quanto sia difficile fare le cose.