Provenienza:
Alessandro. Morandotti, Roma;
Collezione privata.
Esposizioni:
Roma Palazzo Massimo, Cinque pittori del Settecento: Ghislandi, Crespi, Magnasco, Bazzani, Ceruti, 1943, n. 84;
Milano Palazzo Reale, I pittori della realtà in Lombardia, 1953, n. 118;
Torino Galleria d’Arte Moderna, Giacomo Ceruti e la ritrattistica del suo tempo nell’Italia settentrionale, 1967, n. 36.
Bibliografia:
G. Briganti, Cinque pittori del Settecento a Palazzo Massimo, in “Emporium”, XCVII, 1943, pp. 199, 200 ill.;A. Morandotti, Cinque pittori del Settecento: Ghislandi, Crespi, Magnasco, Bazzani, Ceruti, Roma 1943, cat. Esp., p. 112, n. 84 ill.;I pittori della realtà, Milano 1953, cat. Esp., p. 66, n. 118, tav. 118; A. Grisieri, Bilancio di una mostra: I pittori della realtà in Lombardia, in “Emporium”, CXVIII 1953, p. 68; M. Liebmann, I “Pittori della realtà” in Italia nei sec. XVII-XVIII, in “Scritti dedicati al 50mo anniversario del Museo di Belle Arti Puskin”, Mosca 1962, rist. in “Acta Historiae Artium, Academia Scientiarum Hungaricae” 1969, p. 277; G. Testori, Giacomo Ceruti, mostra di trentadue opere inedite, Milano 1966, cat. Esp., p. 30; L. Mallè, The Barons and Beggars of Giacomo Ceruti, in “Art News”, LXVI, march 1967, p. 27 ill.; L. Mallè, G. Testori, Giacomo Ceruti e la ritrattistica del suo tempo nell’Italia settentrionale, Torino 1967, cat. Esp., p. 51, n. 26, tav. 12, p. 165; U. Ruggeri, Ceruti a Torino, in “Critica d’Arte, XIV, aprile 1967, p. 6; C. Volpe, Arte Italiana (dalle origini al Settecento), in “Enciclopedia Feltrinelli Fischer – Arte I, a cura di W. Hofmann e C. Volpe, Milano 1968, fig. 65; Dizionario Enciclopedico Bolaffi dei pittori e incisori italiani dall’XI al XX secolo, Torino 1972, II, p. 265, fig. 243; G. Previtali, La periodizzazione della storia dell’arte italiana, in “Storia dell’arte italiana”, I, Torino 1979, fig. 101; V. Caprara, voce Ceruti, Giacomo Antonio, in “Dizionaro Biografico degli Italiani”, Roma 1980, p. 62; M. Gregori, Giacomo Ceruti, Bergamo 1982, p. 176 n. 47, pp431 – 432; F. Porzio (a cura di), Da Caravaggio a Ceruti. La scena di genere e l’immagine dei pitocchi nella pittura italiana, cat. Esp., Milano 1998, p. 68 fig. 6.
Da quando nel 1943 Alessandro Morandotti senior presentò il Mendicante moro in una piccola mostra romana che anticipava di molto il gusto dei decenni successivi, l’opera è stata considerata una delle immagini più crude, moderne e vere che compaiono nel pur ampio catalogo del Ceruti. Dopo la mostra del 1943 l’opera compare in due altre esposizioni, quella celeberrima, organizzata da Roberto Longhi al Palazzo Reale di Milano nel 1953 sui Pittori della realtà e quella monografica tenutasi a Torino nel 1967, l’ultima occasione in cui l’opera apparve in pubblico.
Parole di ammirazione per l’opera sono state spese da tutti i critici che l’hanno pubblicata nel corso degli anni fino a, ultimo in sequenza temporale, Alessandro Morandotti junior, nipote dello scopritore del dipinto, che nel saggio scritto per la mostra bresciana del 1998 intitolato significativamente Poveri, pitocchi, emigranti: fonti figurative e storia sociale ne parla in termini insieme ammirati e divertiti.
Stilisticamente e per qualità esecutiva l’opera si colloca in prossimità delle diciotto tele che nell’Ottocento formarono il cosiddetto ciclo di Padernello, l’opera universalmente riconosciuta come il capolavoro di Ceruti, e può quindi essere datata negli anni ’20 del Settecento.
Più complesso è risultata l’indagine sulle fonti iconografiche di un’immagine tutto sommato così anomala: gli estensori della scheda del catalogo della mostra del 1953 avevano indicato una possibile relazione con le opere lasciate settant’anni prima da Grechetto nella vicina Mantova, Alessandro Morandotti ha indicato lontane origini nella raffigurazione degli zingari nella pittura di genere seicentesca ma ha anche evidenziato la comunanza di gusto con quanto accadeva a Venezia: “Può darsi che quel mendicante moro sia anche esistito ma … Ceruti lo avrà ritratto un po’ come Pietro Longhi immortalò il rinoceronte approdato a Venezia nel 1751…: un’apparizione curiosa e imprevista che fece notizia fra la nobiltà locale.
Immagini di persone di colore sono in realtà abbastanza frequenti in tutta l’arte occidentale e nella pittura italiana dal ’500 al ’700: un’indagine in tal senso è stata recentemente fatta in un saggio di Paul Kaplan (Italy, 1490 – 1700 in The Image of the Black in Western Art, III, Harvard 2010, pp. 92-189). In origini confinate alle parti narrative di dipinti religiosi,dove spesso impersonavano il ruolo dei carnefici ma con l’eccezione di uno dei re magi, le persone di colore si fanno più frequenti soprattutto in area veneziana a partire del ‘500. Tra gli esempi più celebri i due paggi nella Laura Dianti e nel Ritratto di Fabricio Salvaressa di Tiziano o i servitori che affollano le Nozze di Cana e la Cena in casa di Levi di Veronese. Più avanti nel ’600 e nel ’700 servitori di colore diventano una presenza abbastanza comune in tutta Europa; da tutte queste immagini il Mendicante moro di Ceruti si distacca per la monumentalità e la dignità morale che l’artista sa infondere a una figura, ma questo dato, come sottolinea ancora Alessandro Morandotti, è una delle caratteristiche principali di tutta la produzione pauperistica di Ceruti che, grazie alla qualità sempre altissima della sua pittura, nobilita tutto un filone della pittura di genere.
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