Emeka Ogboh
Nato a Enugu, Nigeria, nel 1977.
Vive e lavora a Lagos, Nigeria.
Formatosi come artista grafico alla University of Nigeria Nsukka e laureatosi nel 2001, Emeka Ogboh è diventato un pioniere tra gli artisti del suono in Africa. Il suo lavoro sul suono, partito da una fascinazione etnografica per il nucleo commerciale di Lagos, è stato il risultato di due fattori chiave. Il primo è una considerazione iniziale sull’abbondanza dei mercati sparsi per la città e sul modo in cui essi definiscono la psicologia di Lagos in quanto luogo; il secondo è la sua scoperta dell’arte del suono, avvenuta nel 2008 in Egitto, alla Fayoum Academy. Il suo lavoro sul suono, che Ogboh ha chiamato Lagos Soundscapes, esplora la storia della città, il suo paesaggio sociale, le forme di appartenenza, le quote di proprietà e i concetti di spazio. Ogboh cerca di comprendere la città attraverso avatar e contesti familiari, che sollecitano esperienze sonore su una scala di massa. Nel suo lavoro ha studiato i danfo, i bus commerciali gialli della Volkswagen che a Lagos si trovano un po’ ovunque e che articolano il carattere acustico della città attraverso una cacofonia di suoni: conducenti che urlano i tragitti degli autobus, interazioni sociali tra passeggeri che si scambiano gli ultimi pettegolezzi, predicatori evangelici che operano sui bus, venditori ambulanti che cercano di vendere ogni sorta di mercanzia.
A partire da Lagos State of Mind 1 (2012), un’installazione di Lagos Soundscapes inserita in un danfo come parte della mostra Progress of Love alla Menil Collection di Houston, in Texas (2012), Ogboh ha cominciato a combinare suono e forme materiali in modo più netto. Questo ha segnato un allontanamento notevole dal suo iniziale approccio minimalista, in cui i soundscapes venivano installati con elementi visivi limitati. La sua attività ha continuato a diversificarsi e oggi include una varietà di media e forme d’arte come fotografia, video e installazioni multimediali.
Ogboh ha affrontato anche altri soggetti, fra i quali i temi della migrazione e della globalizzazione hanno assunto un’importanza particolare. Il suo lavoro alla Biennale di Venezia, The Songs of the Germans, è un ottimo esempio di questa tendenza. Questa installazione sonora multicanale consiste nelle voci di rifugiati africani che cantano Deutschlandlied, la terza strofa dell’inno nazionale tedesco composto da Joseph Haydn nel 1797, tradotto però nelle diverse lingue madri dei partecipanti. L’opera esamina lo status politico e le condizioni economiche degli africani che vivono a Berlino, ai quali viene negata la residenza formale, sullo sfondo della retorica e delle proteste anti-immigrazione recenti – in Germania in particolare, ma anche in tutta Europa –, per mettere in crisi l’idea secondo cui la globalizzazione fornisce una mobilità, un accesso e un’accettazione uguali per tutti.