Lo studio Assemble non ha solo messo in dubbio il modo in cui costruiamo la città (i cittadini dovrebbero esserne coautori?) e il modo in cui gli abitanti si relazionano con essa (dovrebbero semplicemente usare gli spazi pubblici e le infrastrutture come beni di proprietà collettiva?), ma anche quello in cui gli architetti dovrebbero disegnarla (sono un collettivo in cui l’autorialità è “dispersa”). La ricerca di Assemble si spinge fino al modo in cui educhiamo i nostri figli, esprimendo questi interrogativi attraverso interventi nella città. Il progetto presentato alla Biennale, analogamente a molti altri del suo portfolio, è un invito a diventare autori del nostro habitat.
Una dichiarazione che a prima vista può sembrare radicale e rivoluzionaria, ma il novanta percento degli abitanti del pianeta è effettivamente artefice dei luoghi in cui vive (e che noi chiamiamo slum). Uno dei peggiori difetti di un ambiente autocostruito è che le azioni individuali, anche se animate da buone intenzioni, non possono garantire la qualità dell’insieme. Questa è la prova che la risorsa che più scarseggia nelle città non è il denaro, ma la coordinazione. Ciò che contraddistingue l’approccio di Assemble è che non rivendica il diritto della gente di costruire i propri spazi residenziali, bensì di intervenire nella progettazione degli spazi pubblici, le strutture ricreative e i servizi che la città può offrire ai suoi abitanti.
Il contributo di Assemble al dibattito è quello di avere empiricamente testato un nuovo concetto di autorità, non soltanto nel senso di chi detiene l’autorità stessa, ma di chi è l’autore. Un’autorità “dispersa” anziché concentrata è qualcosa che merita attenzione. Chi coordina, allora? Questa è la prossima domanda.