L’attuale aspetto della grande statua di Vajrabhairava è assai diverso da quello che possedeva all’epoca del suo acquisto, nove anni prima di bruciare sotto le bombe inglesi durante il conflitto mondiale. La scheda inventariale chiarisce tuttavia come l’opera apparisse in origine: “Dalla sommità del cranio si elevano sovrapposte: una testa virile digragnante (sic!) con diadema formato da altre cinque testine e una femminile con capelli a doppio tutulo e diadema a cinque palmette. [...] Dalla cintola pende una specie di veste a nastri disposti a festone intervallati da piastre a volute floreali. [...] Le otto [gambe] di sinistra [...] poggiano su altrettante anatrelle, le otto di destra su bufale accosciate (2 anatrelle hanno la testa laccata di rosso)”.
L’immagine canonica di questa divinità la raffigura infatti con la testa di bufalo circondata da sei teste demoniache e sovrastata da un ulteriore volto terriffico sopra il quale trionfa infine la testa serena del bodhisa va Mañjuśri, di cui Vajrabhairava è manifestazione. Gli esseri calpestati dovevano essere disposti in due schiere, e assieme a uccelli e bovini comparivano esseri celesti e divinità induiste soggiogate. Nella scheda non si fa cenno a eventuali attributi tenuti nelle mani, probabilmente mancanti già all’arrivo in Italia, mentre dalle analisi sortite da un recente recupero conservativo sappiamo che la statua doveva essere in gran parte dorata e dipinta in policromia.
Le caratteristiche stilistiche denotano affinità con i modelli cinesi popolari nel XV secolo e ripresi sotto gli imperatori Qing. Le dimensioni eccezionali di questa statua, e il fatto che essa sia pervenuta al museo assieme a un’altra, altrettanto monumentale e del medesimo atelier, raffgurante Guhyasamāja con la sua yoginī, fanno pensare che esse fossero le icone maggiori di un’importante sala di un tempio lamaista.
Queste immagini, assieme a Chakrasamvara, rappresentano due dei tre principali yidam (o istadevatā, deità tutelari oggetto di meditazione) della scuola Gelug, per cui si può ipotizzare che le due sculture fossero collocate in origine vicino a una terza opera, oggi dispersa.