L’impianto di questa grande tela propone ancora un aggancio forte con la pittura, sebbene in quegli anni Burri abbia già elaborato le serie delle Muffe, dei Catrami e dei Sacchi, con cui dalla fine dei Quaranta aveva iniziato una serrata e rapidissima sperimentazione condotta sui nuovi materiali. Le ragioni di questa scelta realizzativa, un’inversione di rotta per certi versi più tradizionalista e contradditoria rispetto alla ricerca più sperimentale sulla materia, vanno individuate nel carattere affatto particolare di questo lavoro, concepito questa volta su commissione per l’abitazione del collezionista romano Giorgio Franchetti. Realizzato ad olio, smalti e collage su tela, Bianco propone la personale interpretazione di Burri della tecnica del collage, rispetto ai precedenti tentativi avanguardistici della prima metà del Novecento, che, per la valenza maggiormente materica delle soluzioni adottate, denota la familiarità con l’ambiente romano gravitante intorno all’Art Club. Particolarmente significative in questo senso dovettero essere le ricerche polimateriche di Enrico Prampolini - che di quell’associazione artistica fu uno dei fondatori e presidente -, insieme ai primi tentativi dell’amico Piero Dorazio, il quale negli stessi anni mescolava la sabbia al colore a olio, col fine di ottenere un materia più scabra e consistente. Rispetto a questi precedenti qui il colore perde la sua funzione pittorica giocando alla pari con gli altri materiali, che raccorda e ingloba all’interno della composizione, fra cui alcuni organici, come i residui di trinciato di tabacco.