Maestro ottocentesco del colore e del segno, Mosè Bianchi cadde in un ingiustificato oblio nel ventesimo secolo. Oggi, tuttavia, la sua capacità di tradurre in appassionate vedute o in scene di genere il moderno fluire della realtà viene abbondantemente riconosciuta. Egli, di origine monzese, non rinnegò mai la propria terra; anzi, nel corso delle sue molteplici esperienze divenne anche consigliere comunale a Milano. Ma compì numerosi viaggi a Venezia, dove ebbe modo di assimilare con intelligenza critica la lezione dei grandi pittori del settecento lagunare; da loro, un poco come Boldini, mutuò il tratto frastagliato e nervoso che, a differenza dell’artista ferrarese, si compone sempre in un quadro di insieme pacato, passando dal romanticismo al realismo, al pre-impressionismo. L’opera che qui ammiriamo mostra sensibilità e delicatezza dei toni, nel ritratto di una giovinetta ancora adolescente. Nella sua quieta mestizia ravvisiamo l’antica sapienza degli autori lombardi. Costoro hanno spesso saputo cogliere nella quotidianità quel tratto di intensa introspezione che, pur nei confini di una vita umile, mostra una scintilla di genio e una speranza di vita.