Una mostra di pittura americana in
Italia
Col titolo "25 anni di pittura americana, dal 1933 al '58, ha sostato quest'inverno a Napo
11, Roma, Firenze e
Milano, una mostra comprendente opere di ventinove autori con una media
di tre quadri ciascuno. Il catalogo, che presenta un'introduzione anonima così come lo sono
le brevissime biografie dedicate ad ogni pittore, ci fa intendere che la mostra è stata pro-
mossa d'ufficio, secondo criteri più o meno burocratici: infatti è da escludere che essa rap
presenti un panorama effettivo della pittura americana tra il '33 e il '58 anche se, proprio
per la sua impostazione vagamente nazionalistica, si presenta come un interessante documento.
In effetti questa mostra ci fa comprendere su quale piattaforma comune, e quindi in quale
situazione culturale, siano cresciute le personalità più forti di questo dopoguerrals alcune
delle quali sono state incluse nel gruppo degli espositori, primo fra tutti Jackson Pollock
(purtroppo con due dipinti non di prim'ordine) e quale sia stato il significato della loro
rottura sul piano nazionale.
Dalla prima mostra ufficiale d'arte moderna europea in America (impressionisti, fauves e
cubisti) che ebbe luogo a New York nel 1913 col nome, ormai celebre, di mostra dell'Armory
Show, all'immigrazione di pittori dadaisti, surrealisti, espressionisti e astratto-geometri-
ci, sia per volontà propria sia, soprattutto, per motivi politici (come è noto, il nazismo ver
so il '30, rese impossibile l'esistenza ai pittori d'avanguardia su suolo tedesco), al crear-
si di gruppi americani desiderosi di porsi al passo delle ricerche europee e talvolta con ri-
sultató niente affatto secondari rispetto ad esse, il problema della creazione artistica in A
merica è stato estremamente complesso in quest'ultimo cinquantennio. Da un lato era inevita-
bile che, privi di tradizione pittorica, gli americani se ne scegliessero une, ovviamente eu-
ropea, l'assimilassero, soggiacendo sovente a un periaoloso stato di inferiorità; dall'altro
lato, proprio il fatto di non essere vincolati storicamente ad una tradizione nazionale,
permise agli americani medesimi di bruciare rapidamente le tappe dell'aggiornamento cultura-
le per lanciarsi in proficy e coraggiose avventure creative. Basti fare un confronto tra il
modo in cui ad es. veniva adottato in Europa il linguaggio picassiano intorno al '47 e il
nodo nel quale veniva sviscerato, rielaborato, distrutto quasi per un'ulteriore spremitura di
significati, da parte di Pollock e di altri americani. Con loro, si può dire, l'America ha
iniziato una sua pittura che ha operato un salto rispetto a quella del vecchio continente per
aderire a una situazione nuova dell'uomo moderno, immerso in una società altamente industria-
lizzata che egli insieme esprime e giudica. L'America senza radici culturali nell'ambito ar-
tistico dopo cinquant'anni di faticoso colloquio con l'uropa e con l'Oriente, è diventata
una confluenza di radici che spregiudicatamente assume e mette alla prova. In un clamoroso
gesto di anarchismo, insieme disperato e corroborante, Pollock compone il suo quadro ripeten-
do decine di volte lanci di colore liquido sulla tela fino a coprirla interamezut est: in tal mo
do egli utilizza i procedimenti automatici imposti dal progresso industriale all'operaio (l'i-
teraziono del gesto) gua per creare il massimo della libertà espressiva.
I pittori più interessanti della mostra, oltre al genio di Pollock (morto nel '56), sono
quelli che, come lui, rappresentano il dopoguerra, anche se una parte cospicua della mostra
è dedicata a fasi intermedie della pittura americana: il suo scontro con l'Europa e le sue
risorse popolareggianti, primitive, regionali sulle quali innestava gli apporti europei.
Del dopoguerra: l'espressionista-astratto olandese, ma arericano di adozione, Willem De Koo-
ning che in una serie di figure di donna di impianto picassiano generosamente sconvolto, ha
espresso l'orrore e l'attrazione dell'uomo U.S.A. per il mito forminile e il matriarcato; il
surrealista armeno Arshile Porky, suicida nel '48, con un quadro astratto del '37 (quando in
Italia eravamo nel pieno Novecentismo) e altri due pezzi dove è evidente l'influsso di Miro,
ma tradotto in un'apprensione angosciata della vita come l'anziano Mark Tobey, riconosciuto
maestro, che dopo un lungo soggiorno in Cina a partire dal 24 introdusse la calligrafia nella