La parola italiana “tuta”, che in inglese conosce diverse traduzioni, porta in sè molteplici sensi: 'Tutti in tuta' proclamava Thayhat nel 1920, lanciando il cartamodello di un indumento fatto in un unico pezzo, veloce ed economico. La tuta ci rimanda all'ambito del gioco, del tempo libero e del relax vissuto tanto negli spazi domestici quanto all'aria aperta. Contemporaneamente, nella sua manifestazione specifica di tuta da lavoro, è uno dei simboli della produttiva fordista. Per Sara Enrico, questa ambiguità, o apertura semantica, è il punto di partenza di riflessione metaforica, che passa attraverso un abito che implica una postura del corpo, tra il pubblico e il privato, tra il singolo e la collettività, tra l'interno e l'esterno. Le sculture, che sembrano giocare sulla collina del PAV, sono realizzate in cemento e pigmenti, la 'matrice' è un rudimentale cartamodello, confezionato con un tessuto tecnico. La relazione con le superfici ed i processi di traduzione sono strategie ricorrenti nel lavoro dell'artista la quale, mantenendo un pensiero pittorico, agisce nella tridimensionalità e nello spazio. La doppia valenza che è propria del dispositivo culturale della tuta vuole rispecchiare gli aspetti dicotomici di diritto e dovere, piacere e responsabilità, che dovremmo tenere in considerazione nell'articolare il nostro corpo nello spazio aperto.