È lì. Non è una ferita sul corpo, non una cosa che vedi. È la somma dei pensieri, il decidere in secondi, capire, scegliere.
Fare. Scegliere, capire, decidere in secondi e la somma dei pensieri. Tutti i giorni, per anni. Lo chiamano stress. Ma tu non ti accorgi. Il lavoro, il traffico, Milano, il parcheggio, le riunioni, sempre. La casa, la famiglia, la moglie, i figli. L’ufficio. l computer, le telefonate, l’orologio. Ore 23: incubo e liberazione. Scrivere. Le mail, le pagine, le interviste, l’orologio. Ore 23: incubo e liberazione. È lì, la cicatrice. Come un solco scavato da fantasmi. Togli il male, cuci, chiudi. Comincia e ricomincia, dalle dieci di ogni mattina. È il lavoro che ti piace, ma che ti allontana. Ti chiude. Io, tu, noi ruminanti, stupidamente potenti e fieri, malati di angosce, ansie, dubbi. Cominci a credere che la vita va vissuta in quel modo. Non è vero. E la cicatrice
s’allarga. Diventi aggressivo e assente. Conta solo il tuo ruminante lavoro. Devi fermarti. Ci sono voluti due anni per riscoprire gli altri. E quindi me stesso. Riflettere su una fretta inutile. Riprendere il senso delle cose, riscoprire la fiducia e capire che senza fiducia non c’è comunità. La cicatrice? È lì, ma non si allarga più.