Coppia con maschere (45-79 d.C.)Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Carlo di Borbone, da pochi anni asceso al trono di Napoli, autorizzò Roque Joaquin de Alcubierre - ingegnere spagnolo incaricato della costruzione del palazzo reale di Portici - a utilizzare quattro dei settecento operai impegnati nei lavori a condurre indagini nel sottosuolo, dopo i fortuiti rinvenimenti di alcuni manufatti antichi. Fu così, quasi per caso, che nel 1738 fu scoperta l'antica città di Ercolano, sepolta dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Dieci anni dopo, nel 1748, si cominciò a scavare a Pompei, e l'anno successivo a Stabia.
A un anno dai primi rinvenimenti si cominciò a discutere della rimozione delle pitture, pratica che divenne abituale fino alla fine del XIX secolo, quando si decise di lasciare agli edifici le proprie decorazioni pittoriche, opportunamente protette da nuove coperture.
Asportare porzioni delle pitture murali non era operazione semplice, ma presto fu sviluppato un metodo che raramente causò incidenti. Venivano prodotti tagli intorno alla parte che si decideva di asportare, all'interno dei quali venivano inseriti assi di legno fissati tra loro con lunghi cavicchi di ferro; il muro veniva segato posteriormente e la porzione di intonaco prelevata era resa più stabile con l'aggiunta di un supporto rigido, abitualmente una lastra di ardesia.
A Camillo Paderni - che ricoprì l'incarico di Custode del Museo Ercolanese, allestito nella Reggia di Portici, dal 1752 al 1781 - spettava la scelta delle pitture da asportare. Allo stesso modo egli decideva anche quali pitture andassero irrimediabilmente danneggiate: questa pratica tendeva forse a evitare che quanto non fosse stato scelto per le collezioni reali finisse in mani estranee, tuttavia suscitò immediatamente aspre critiche, tanto a Napoli che fuori dai confini del Regno.
La scelta delle pitture da staccare sembra essere stata orientata al recupero dei soggetti figurati - quadri, vignette, particolari accessori - indipendentemente dalla loro posizione sulla parete e dalle loro dimensioni.
Ovviamente la scelta ricadeva sulle pitture con soggetti mitologici.
Scene di genere, come la così detta "Venditrice di Amorini", che presto divenne uno dei soggetti più famosi della collezione.
"Fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle Grazie". Così Winckelmann descrive in una lettera al Conte di Bruhl del 1762 le piccole figure femminili con le loro vesti fluttuanti nei movimenti della danza. I diversi frammenti pittorici, prelevati dalle pareti della così detta Villa di Cicerone di Pompei, furono uniti insieme a formare una sorta di fregio continuo.
Le piccole figure di Satiri funamboli, appena abbozzati con veloci pennellate, colpiscono per la straordinaria vitalità dei movimenti.
Immagini di sacerdoti di Iside, dipinte su fondo bianco.
Rappresentazioni di animali.
Nature morte, che pur rappresentando soggetti non particolarmente significativi, colpiscono per la perizia tecnica con cui sono realizzate.
"Pastiche" composti con elementi decorativi omogenei, come i candelabri metallici ornati da girali vegetali, festoni, fiori di loto e piccoli uccelli che poggiano sulle volute.
"Pastiche" composti da frammenti eterogenei, spesso rinvenuti in frammenti ai piedi dei muri.
Si prelevarono anche superfici pittoriche di dimensioni considerevoli: nel 1755 fu staccata un'intera parete del tablinium dei Praedia di Giulia Felice, lunga quasi cinque metri per tre metri di altezza.
L'impatto di queste immagini sulla cultura artistica europea del Settecento fu dirompente, ma questa è un'altra storia...
Photo credits Luigi Spina
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